Sulla costa orientale dell’isola di Skiros, nascosta tra colline ondulate coperte da pinete, c’è una piccola insenatura dove si fermano egrette, aironi e falchi migratori. A differenza di altre baie, animate dai pescherecci, questo angolo di spiaggia è silenzioso e remoto. Un tappeto di alghe chiare, quasi una fuliggine opalescente portata lì dal movimento costante del mare, emette lievi fruscii sotto i miei piedi nudi. Degrada verso la distesa di ciottoli bianchi, ovali e levigati della spiaggia, per curvare nell’acqua, placida e azzurra. Allungo il collo del piede verso il mare ma lo ritiro subito, avvolta da una sensazione di gelo e frescura. Emetto un respiro profondo e ci immergo tutti e due i piedi ora, accettando quel sacramento primigenio, quel battesimo ancestrale e assoluto di creature provenienti dall’acqua, quali noi siamo.
Non è ancora un giorno d’estate ma l’intensità della luce contorna tutte le cose di bellezza assoluta. Quella che ti da una fitta dolorosa, che ti fa sentire estraneo a tanta gloria e ti rammenta quanto ciò che di bello esiste nell’universo non è cosa nostra, solo nostra, ma che esso è sottratto al controllo del nostro tempo e che saremo noi, un giorno, a dovercene andare. Con le nostre passioni e la nostra tenerezza. Con i nostri amori schietti e quella triste e fatale consapevolezza di essere stati solo umani.
In fondo, nell’angolo estremo della baia, c’è un casa diroccata, tutta bianca. A darle risalto nella luce abbacinante, le vecchie imposte di un azzurro vivido e la piccola porta di un verde acquoso come certi sogni d’infanzia. Un catenaccio arrugginito e aperto e una fune ora sciolta, che serravano un tempo le due porte più piccole ai lati della casa, ora lasciano filtrare un cono d’ombra. Si scorge, all’interno, un caminetto in pietra sbreccato in più punti e un grande lavabo con mosaici ormai stinti e dove le figure sono irrimediabilmente svanite in ombre senza colore.
Tutto è silenzio. Se è vero che il giovane Achille partì da queste baie per la guerra di Troia, è pur vero che gli dei sono silenziosi ora e gli eroi vagano nell’Ade, con le loro monete sugli occhi a pagare l’avaro traghettatore di anime.
Un gabbiano sbatte freneticamente le ali, aprendo e chiudendo il becco in una fame di aria e di luce.
C’è un molo in pietra che dalla casa conduce nelle acque cristalline della baia e sei colonne bianche reggono un tetto in legno quasi completamente distrutto. Dalle poche travi superstiti penzolano lembi stracciati di una garza che vola pigramente al vento. Sul basso muretto, da cui si dipartono le colonne, scopro sei piccole statuette assemblate con i sassi levigati dell’isola. Rappresentano uomini e donne, talvolta rappresentano un bambino tra loro. In una, l’uomo e la donna si fronteggiano, fronte contro fronte, e l’uomo abbraccia la donna. In un’altra, sono entrambi stretti in un abbraccio con il capo chino e la donna poggia il capo su quello che sembra essere il petto dell’uomo. Poi c’è una mamma con il suo bambino, in un gesto di protezione e amore. Sono tutte formate da cinque o sei sassi messi insieme con creatività e arte. Mi fermo a guardarli sbalordita. Quale mano ha composto queste commoventi figure? Chi è l’ignoto autore? Un bambino, una giovane donna. Un pescatore adolescente? Una coppia di innamorati? E perché metterli lì, in fila, esposti come in un museo? L’intensità dell’esistenza è racchiusa in quelle piccole sculture. Un cuore sacro che batte e pulsa al pari di altri cuori in molti altri luoghi. Ma in quella casa abbandonata, con le sue colonne piantate dritte nel mare, lì tutto è sprovveduto e commovente. Chiunque li abbia composti e adagiati sul quel muretto, lo ha fatto con cura, con gesti pacati e un’antica civiltà rimasta intatta per secoli.
Ritorno il giorno dopo. Di mattina presto. Non c’è nessuno come non c’era nessuno il giorno precedente. Solo il silenzio, il vento e il canto ritmato delle cicale. Vado di corsa alla casa. Attraverso la sua spiaggia di ciottoli bianchi e mi sporgo sul muretto. Le statuette non ci sono più! Il muretto è spoglio e la sua superficie, ruvida e porosa, è tornata vuota. I piccoli crateri e le fessure presenti sulla pietra sembrano aver inghiottito o assorbito le figure in un vortice scuro. Qualcuno nella notte o all’alba le ha portate via. Le ha spazzate via con la mano restituendole alla spiaggia o le ha recuperate dolcemente e le ha portate via con sé. Perché? Forse una mano invisibile, la stessa che le ha plasmate, esorta all’oblio? Insegna che tutto è menzogna? Che dobbiamo dimenticare. Che l’amore non esiste? L’amore che, solo, ci fa sentire immortali, quell’amore, dunque, è solo breve bagliore? Un baluginìo leggero, una visione di insostenibile intensità da renderci poi ciechi? La scomparsa di quelle figure amorevoli è un graffio nel mio animo. Un ferita sulla pelle che poi bruci se immersa nell’acqua di mare. Possibile che sia tutta un’astrazione, una truffa? Che anche il corpo amato è una somma di divisibili attimi in cui lo puoi toccare per poi perderlo in una frazione indistinguibile di tempo e spazio?
Restano solo le mie domande e il mio stupore pari solo alla scoperta del giorno precedente, di quelle piccole sculture. Resta solo la luce tersa e struggente del giorno che diviene sempre più calda e accecante. Riattraverso la spiaggia di alghe affondando i piedi in quella soffice palude secca. Infilo le mani in tasca e tocco 5 pietre, piccole e lisce sono il mio pezzo di infinito. Il mio bagliore di immortalità.
No, mi dico. La vita non è un’equazione. È la possibilità di infinite comprensioni.
Fotografia e testo di Incanto Errante