L’industria mondiale dell’immagine digitale ha oggi un impatto enorme sul nostro modo di percepire la natura. Sommersi come siamo da miliardi di immagini, la natura è ostentata e venduta in immagini-paesaggio, foto-paesaggio, film-paesaggio, natura-cartolina, natura-esotica, etc.
Con il risultato che la natura non sarebbe, in ultima istanza, che il prodotto standardizzato di una società di consumo.
Un’alternativa, oltre la saturazione causata dalla sovrabbondanza di immagini cliché, ce la offre Petra Probst, artista, illustratrice e fotografa che vive e opera tra la Germania e l’Italia, a Monaco e Torino.
Il suo sguardo sulla natura non costituisce o riproduce modelli o schemi preesistenti ma è potenzialmente illimitato.
Il privilegiare un dato gioco di luci, di proporzioni, la qualità cromatica atta a creare contrasti delicati e di forte impatto emotivo, sorprende chi guarda e supera in maniera radicale la visione di paesaggio naturale tout court.
Ciò che sorprende è aver compiuto quel movimento minimo e tuttavia differente che cambia d’un sol colpo ogni cosa.
La Probst esce dagli schemi e implica una totale libertà di marcia, un cambiamento della prospettiva. E lo fa operando una Krisis, nel senso etimologico della parola greca “taglio”, “separazione”, da tutto ciò che sono i riferimenti puramente geografici o storico culturali della natura.
La sua natura è un’identità fluttuante, un’opera in status nascendi, dove l’immagine da qualcosa diventa altro.
Nell’opera della Probts, una natura antropomorfa, infatti, oscillante e instabile, è insieme essere umano e natura, identità e esperienza, natura e percezione, forme e leggi presentate in modo mimetico dove la capacità associativa dell’artista interviene sull’impressione dello spettatore che, malgrado l’assenza evidente di qualunque azione, percepisce chiaramente una natura che sembra vivente, che è vita che si trasforma sul piano ermeneutico in un fenomeno che attira e sussiste come resilienza.
In questa immagine-paesaggio è il corpo, nel senso assoluto di Essere un corpo (Leib), ad essere un tutt’uno con la natura. Pur non negando aspetti psicologici, fenomelogici sociali, antropologici, (Petra Probst si occupa anche della formazione per insegnanti e operatori del sociale al fine di promuovere la multiculturalità e la prevenzione del disagio giovanile con il linguaggio artistico), l’artista spiega la sua natura rinviando ad una spazialità nuova, creando le condizioni per nuove percezioni.
L’opera non rinvia a un ciò che precede, ma espone un insieme di forme e colori in cui la figura è presente con tutte le potenzialità dell’essere corpo umano all’interno del corpo madre-natura, in un mutuo abbraccio.
Per la fotografa tedesca il desiderio di rifondare la relazione con la natura, che è strictu sensu invisibile e di difficile rappresentazione, è di ordine morale e intellettuale prima che puramente estetico. Da una aesthesis, ossia percezione visuale, che concede il primato alla vista, ci si trova di fronte ad una natura scrutata fin nei suoi dettagli più intimi, a rinforzare la convinzione di un’appartenenza più che di una perdita, di una non differenza a separare l’uomo dalla natura.
Per questa natura, l’essenziale accade sul piano simbolico. Non è compito dell’occhio, dello sguardo del soggetto, il recupero della natura. Nelle sue otto fotografie non vi è alcun particolare nella forma del viso che si intraveda tra il fogliame o i tronchi, o i rami nella nebbia leggera. Né occhio né bocca né sopracciglio ci darà l’esatta narrativa di quanto sta accadendo. Tutto avviene attraverso una visione. Trascende ogni logica e lo fa fondendo il soggetto (donna) con il suo oggetto (natura).
L’Io si con-fonde con la natura, oltrepassa il confine soggetto natura e confonde i due poli all’interno di un desiderio nostalgico di riappropriazione reciproca.
L’assenza di ogni spazialità attuale, inoltre, cortocircuita ogni lettura tradizionale. Cosicché lo spettatore dovrà fare ricorso alle capacità intuitive piuttosto che alla ragione, alla storia o al sapere.
In questo elemento perturbatore le fotografie della Probts si riconducono all’opera di Claude Monet. Fu lui per primo ad introdurre il concetto nell’arte di “morte del paesaggio” inserendo l’elemento perturbatore di macchie di colore sulla tela.
Questo elemento “irritante” genera l’impossibilità per lo spettatore di orientarsi nel quadro. Elimina la distanza necessaria alla costituzione dell’immagine in quanto fenomeno visivo consueto e ridefinisce le modalità della relazione che lo spettatore dovrà intrattenere con l’opera d’arte.
Allo stesso modo, le fotografie della Probst, piene di energia nuova, esigono un approccio nuovo. Chi guarda, privo come sarà delle possibilità di appoggiarsi su uno guardo pre-visto per lui su una superficie più o meno facilmente decifrabile, dovrà appellarsi alle proprie facoltà sensuali e intellettive.
L’immagine di una natura smaterializzata, per così dire, e vuota, un quasi nulla visuale, campeggia al centro di ogni fotografia. La figura immersa in un’opacità verde bosco-foresta, entra dentro il mondo naturale non come mera soggettività, in una forma di assoluto solipsistico, ma come protagonista che condivide la stessa scena. Non è separata dalla natura, ma entrambe fuse insieme, si completano vicendevolmente.
La figura che sembra essere una donna, forse per una maggiore identificazione con la natura, lungi dall’essere secondaria e puramente decorativa, non è in un isolamento spaziale ma in un luogo che è la natura stessa che, mai semplice sfondo, qui più che altrove è sostanziale, in relazione vissuta e concreta con l’essere umano.
Le figure non assumono nessun ruolo di guida o di coscienza attraverso le quali lo spettatore potrà immergersi nella fotografia. L’apparente debolezza strutturale dei personaggi che, come abbiamo già detto, compaiono come sagome fatte di rami, foglie, tronchi (la loro identità è nascosta allo spettatore), libera il campo, obbligando chi guarda a decifrare, ad acuire l’attenzione e provoca una forma di ricezione più esigente.
Avviene insomma il contrario di ciò che avviene nell’arte di una immagine convenzionale dove il personaggio, di solito identificabile, fa parte di un contesto narrativo che sia mitologico, religioso o politico. Entrare nel paesaggio di un opera d’arte, che sia pittorica o fotografica, significa passare attraverso la storia della figura.
Nella fotografia enigmatica della Probts, questo non avviene. L’abbandono di ogni elemento narrativo fa si che lo spettatore percepisca non solo unicamente qualcuno nella natura ma, pur con tutta la difficoltà di definire questo rapporto, qualcuno per il quale la natura che lo circonda è fondamentale. E che non si trova lì per un rapporto strumentale ma sembra piuttosto “perso” nella sua contemplazione.
Non vi è, in queste fotografie, una natura sottomessa, non un uomo spodestato. Non, di converso, una natura trionfante, un uomo capace di sola autodeterminazione.
Niente e nessuno è minacciato.
Da qui la personificazione della natura e l’inselvatichirsi dell’uomo, inteso come ritorno ad uno stadio primordiale di purezza, è l’unica prospettiva per non alienarsi dalla natura e che sarà la voce attraverso la quale il recupero della natura avrà luogo.
IncantoErrante
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