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Guajira, La Via della Sete

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Sulla rotta degli ultimi nativi colombiani

Reportage di viaggio di Paola Casulli pubblicato sulla rivista culturale Achab

La jeep sobbalza ad ogni cunetta in maniera preoccupante e le spericolate curve che il nostro autista imprime alle ruote su immaginarie carreggiate, sono infinite. Nonostante da ore e ore, davanti e dietro di me e ad ogni lato, io non veda altro che un’immensa piana di terra arida, un deserto di cactus, lucertole e scorpioni.

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Siamo in Colombia, un paese di impervie geografie che, tra altipiani, gole andine, foreste, deserti e le vaste pianure dall’Orinoco all’Amazzonia, vanta enormi riserve naturali di oro, petrolio, carbone, banane, olio di palma e naturalmente di coca. Ma la ricca e fertile terra di Márquez e di Mutis, dilaniata da una guerra civile terminata solo da pochi mesi, resta governata, per il controllo di queste zone, dai poteri di fatto di latifondisti e grandi allevatori, reti clientelari, guerriglia, narcotrafficanti e paramilitari. Una lotta il cui costo in termini di vite umane è altissimo così come restano molteplici gli aspetti enormemente lesivi per i diritti economici e sociali della popolazione colombiana.
Il mio viaggio a Nord, da Riohacha, remoto villaggio di pescatori, a Punta Gallinas, incontaminato punto di incontro tra il deserto e il mare e il più settentrionale di tutto il Sud America, dura da giorni. Al centro la vasta penisola di La Guajira. Una terra separata dal resto della Colombia dalla Sierra Nevada de Santa Marta, in cui si trovano soltanto deserto e carbone, vecchie ferrovie abbandonate e piccoli villaggi rurali di Indios. Una regione selvaggia e sterminata dove bande di contrabbandieri fanno la spola con il Venezuela e gli ultimi guerriglieri delle Farc si preparano al processo di reinserimento nella vita civile, che li vedrà trasformarsi da ex combattenti a candidati alle cariche pubbliche sotto la presidenza del pacificatore Santos.
Per via del continuo sobbalzare, la mia schiena è al limite della sopportazione e il caldo mi rende esausta, ma la maestosità del paesaggio, il più straordinario che io abbia mai visto, non mi lascia fiato per le domande. Vorrei chiedere a José il perché di tutte quelle curve e degli inspiegabili, repentini cambi di marcia, ma lo vedo assorto nella guida, gli occhi stretti in una fessura, protetti dalla forte luce dalla visiera di un cappellino kaki e mi limito a dirmi e ridirmi che andrà tutto bene. Che le cose si sistemeranno e che presto arriveremo a destinazione. A riposare, finalmente, appesa e dondolante in uno dei confortevoli chinchorros, le enormi amache degli Indios, dai colori sgargianti.

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José è un omone alto e grosso, non molto incline al sorriso e alla chiacchiera facile. Appartiene alla fiera tribù dei Wayuu, una delle 100, o poco più, popolazioni indigene colombiane, di cui almeno 64 in imminente pericolo di estinzione. Le cause sono molteplici: pulizia etnica, arruolamenti forzati nelle forze armate, stupri, uccisioni, per il semplice fatto di risiedere lungo le strade del narcotraffico o perché bersagli nel fuoco incrociato tra paramilitari e guerriglieri delle Farc. Causa non ultima, le massicce operazioni di sfratto dalle proprie terre volte a rendere libere le aree in cui le tribù sono stanziali, al fine di riconvertirle ad uso commerciale, destinandole ad imprese agricole, piantagioni di palma da olio ed allevamenti di bovini. O molto più spesso per coltivare la coca.
Si calcola che dei 4 milioni di desplazados, sfollati interni al paese, gli Indios costituiscano il 15% del totale, sebbene rappresentino solo il 2% della popolazione nazionale.
José ha deciso di fare da guida e l’interprete a quei viaggiatori che decidono di inoltrarsi fino al deserto della Guajira, per sottrarsi alla fame certa e forse alla morte. Compie questo lungo tragitto, di sei giorni ogni settimana, tornando a casa il sabato notte per ripartire il lunedì all’alba. Il suo popolo, che pur è riuscito efficacemente a difendere il proprio territorio nel corso dei secoli dai pirati inglesi, dai contrabbandieri d’armi olandesi, dai cercatori di perle spagnoli e da chiunque abbia tentato di conquistare la penisola di La Guajira, nulla ha potuto contro la cupidigia del mondo sviluppato per l’accaparramento delle sue risorse naturali e le materie prime.

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Così i nativi Wayuu considerati politicamente irrilevanti, socialmente inutili e economicamente ininfluenti, non hanno diritto di parola sul proprio destino. Privati delle terre e del bestiame sono stati dispersi e decimati. Costretti a vivere in estrema povertà nelle rancherìas, minuscoli villaggi rurali situati sempre più ai margini estremi del continente, tra capre scheletriche e locuste.
José li conosce tutti e parla con loro, nella loro lingua antica e bellissima, così lontana dallo spagnolo di Cartagena e Bogotà. Attraversiamo la loro terra ma ciò che i miei occhi vedono sono soltanto capanne di cactus e frotte di bambini che spuntano dal nulla, come a voler assaltare la jeep. Questi piccoli Indios, con il moccolo al naso e denutriti, hanno legato grosse funi tra un albero e l’altro, da un lato all’altro dell’unico passaggio obbligato per le jeep. Tenendole in trazione costringono gli autisti a fermarsi e ai loro passeggeri a dare cibo ma soprattutto acqua. L’intera comunità dei Wayuu sta, infatti, morendo di sete. L’unica fonte d’acqua dolce che permetteva la sopravvivenza nella zona era il rio Ranchería ma da quando, nel 2011, la diga sul fiume ha seccato il letto e le falde acquifere, una persona deve vivere con meno di un litro d’acqua al giorno.

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Il fiume è stato deviato per irrigare la miniera di carbone a cielo aperto più grande del mondo e le strade su cui transitano i suoi camion, per un totale di16 milioni di litri d’acqua al giorno.
José distribuisce intere taniche d’acqua, di cui noi abbiamo fatto scorta prima di avventurarci lì, agli abitanti di questi sperduti villaggi. Poi però l’acqua finisce e non mi resta che qualche maglietta e un vestitino senza maniche che porto con me nello zaino per evenienze di quel tipo. José mi chiede di donare un vestitino azzurro con una grande stella marina bianca dipinta sul petto. La donna sgraziata e malformata a tal punto da non riuscire a tenere la testa diritta, è la destinataria del dono. Non riesce a guardarmi negli occhi, per via della malformazione alla spina dorsale che la costringe a restare curva e storta da un lato, ma io intravedo una lieve smorfia che interpreto come il più radioso dei sorrisi. Prende la camiciola e se la stringe al petto. Subito la indossa sopra la sua consunta e sporca tunica di indigena e si pavoneggia in piroette goffe e malferme. Sembra decisa a divertirsi ad ogni costo, immune agli sguardi smarriti di altri Indios, danzando ad un tempo di musica tutto suo. Perde leggermente l’equilibrio ma tocca il gomito della sua vicina, appoggiandosi come per non cadere, e si sente nuovamente protetta, in sintonia. Connessa con i suoi dei o con gli avi o con vento nel cielo. Un cane spelacchiato, le saltella intorno, fa i suoi gorgheggi, geloso della sua esclusività, scorrazza come un forsennato.
Mi chiedo cosa se ne faccia di una stupida stella dipinta sul petto dove le ossa del suo sterno sono così deformate da rendere la stella una strana creatura senza punte, inghiottita dalle pieghe del suo corpo. Eppure lei è il trionfo della felicità degli ultimi. Sospesa nella sua esibizione misteriosa, nel suo dono improvviso e inaspettato.

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La jeep riparte alzando una nuvola di polvere. L’Indios scompare lentamente alla vista. All’ennesima curva in quella strada senza confini mi faccio coraggio e chiedo finalmente spiegazioni. José mi dice che cerca, per tutto il tempo, di evitare le ampie zone di sabbie mobili che si mimetizzano perfettamente nel paesaggio, celate ad occhio inesperto. Se la jeep dovesse impantanarsi in quelle pozze paludose sarebbe la fine. Chiedo come fa a distinguerle e a evitarle. José schiocca le labbra producendo un rumore secco e punta l’indice verso un punto indefinito all’orizzonte. Vedi – dice – il colore e la lucentezza del terreno cambiano – la minima variazione da dorato a bruno indica la secchezza del terreno e ciò vuol dire che il passaggio è sicuro.
Resto sbalordita e guardo il volto di José con ammirazione mista a sconcerto.
Nella assoluta solitudine dell’impotenza di una scena che ho appena lasciato e di fronte alla maestosità del paesaggio che sto attraversando non senza pericoli, una riflessione mi balena nella mente. Quei poveri Indios appena lasciati, quei bambini e le donne sole sotto il sole cocente, senza riparo e senza acqua vivono in una natura ostile. Eppure la natura, per quanto selvaggia e spietata, insieme al rebus fornisce anche le regole per risolverlo, mentre l’uomo ai suoi inganni non oppone rimedi né pietà.

Fotografia e testo di INCANTOerrante

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Reportage pubblicato all’interno del numero 2 della trilogia sul Sud sulla rivista:

ACHAB Scritture Solide in Transito         
Rivista letteraria semestrale cartacea

 

DIRETTORE
Nando Vitali

EDITORE Ad est dell’Equatore

REDAZIONE
Athos Zontini (narrazioni)
Gianluca Vitiello (inchiesta)
Claudio Falco e Fabio Buonocore (graphic novel)
Maria Rosaria Vado (direttore artistico)

 

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