Kali e Yori sono biondi come il grano maturo.

La luce delle prime ore del pomeriggio indugia a lungo su di loro, tersa e struggente. La spiaggia è deserta e il meltemi sferza la superficie del mare increspandone l’azzurro lucente. L’unico ombrellone in paglia ha i lunghi fili della cupola che ondeggiano al vento insieme alla tremula ombra sulla sabbia.

I bambini giocano sulla spiaggia sotto l’occhio attento del padre che chiacchiera con un amico. Protetti dalla calura estiva dal pergolato di gelsomini sopra la loro locanda, gli adulti hanno appena finito il pranzo giacché bevono un bicchiere di ouzo con la rilassatezza sentimentale di un onesto svago e chiacchierano animatamente di chissà quale argomento. Parlano in greco e ovviamente mi è estremante difficile percepire anche solo una loro parola. I due figlioletti di uno degli uomini seduti, corrono, ora, in direzione di una sdraio sbilenca e scolorita dal sole. Dissimulata dalla sdraio, c’è una buca poco profonda. Scavata dai piccoli nel corso della mattina, indica verosimilmente il loro luogo nascondiglio, in una invenzione di avventure incredibili. Appiattendosi sulla sabbia come marine perfettamente addestrato, Kali, fulminea e più veloce del fratellino, striscia sotto la sdraio e si raggomitola nella buca come a voler difendere, da lì, una postazione fondamentale per la battaglia in corso. Yori, che stava correndo appresso alla sorella, incespicando in un invisibile ostacolo, cade e resta steso lì, sulla sabbia a pizzicargli i palmi e le ginocchia, fuori dal campo d’azione. Un’espressione stupìta e vicina al pianto gli si allarga sul visetto per non aver saputo conquistare quel pezzetto di mondo che, evidentemente, è il suo mondo. Il suo pezzetto di vita felice. Allo spettacolo di quell’angoscia a stento trattenuta, Kali è colta da improvvisa magnanimità o da quella regalità di chi sa di essere superiore. Con indifferenza esce dalla buca lasciando il varco indifeso e in balìa dell’ipotetico invasore, permettendo al fratellino, ora fiero e felice, di prenderne possesso e vincere così, sicuramente, la sua battaglia.

Kali è una bimbetta di circa 6 anni. Snella, con le lunghe gambette da cerbiatta, ha negli occhi castani un’indefinibile nostalgia che sembra non volersi dileguare. È più esuberante e disinvolta del fratellino più piccolo, di soli 4 anni, dalla frangetta spettinata e gli occhi azzurri, teneri e maliziosi, sprizzanti intelligenza.
A volte mi guardano, Kali e Yori. Yori sorride e mi strizza l’occhio per l’improvviso raggio di sole a colpirgli la guancia. Kali getta i suoi occhi dritti nei miei e sento una voragine di pensieri, i suoi. Una grotta blu lambita dal mare dove le stalattiti di sale restano immobili, brillano di quell’unica goccia d’acqua e cade, tuffandosi in una piccola onda concentrica, ipnotica e fatale.

All’improvviso, il padre dei due bambini, un uomo giovane ma segnato da profonde cicatrici sul volto affilato, si alza e si avvia verso il furgone parcheggiato nelle vicinanze della locanda. Un’orgogliosa riluttanza a sentirsi così intimamente unito a quel figlio che gli somiglia nell’azzurro liquido degli occhi, gli muove i passi in un’andatura che rivela forza e sicurezza.

Il suo amico e Yori salgono con lui sul furgone. Yori mi saluta e io vedo il suo visetto allontanarsi, attraverso il vetro opaco di sabbia.
Poco dopo, anche noi, finito il pranzo decidiamo di lasciare quello spicchio di baia incantevole e silenziosa.
Chiediamo il conto alla madre di Yori, proprietaria del piccolo ristorantino sul mare. La donna per tutto il tempo non ha emesso una sola parola se non per salutare e prendere le ordinazioni. Poi spariva e riappariva solo con i piatti in mano. Non racconta mai nulla, non chiede né esprime pareri sembrando a noi, rari avventori di passaggio, un’interlocutrice schiva e un po’ severa. Con quella oscura dignità, ignota al marito e nota solo a lei stessa, di chi quella locanda la tiene su da sola.
Lasciamo la donna china a lavare i piatti nella cucina aperta sul pergolato. Vedo le sue spalle curve e i suoi capelli biondi sulla maglietta di una rosa intenso.

Proseguiamo l’esplorazione dell’isola di Skyros, dirigendoci verso il lato Nord. I boschi, gli uliveti, i maestosi pini marittimi si diradano per lasciare spazio ad una distesa rocciosa e arida puntellata qui e là da siepi di oleandri. Gli enormi cespugli invadono entrambi i lati della strada stretta e piena di curve. Centinaia di petali si staccano dai rami bassi colorando il sentiero di un rosa violento e carnale, in un’immagine quasi metafisica e irreale. Dietro una curva scorgiamo il pick-up dell’uomo della locanda fermo sotto una terrapieno scosceso. I due uomini e Yori si trovano in una stalla a cielo aperto.

Dentro, si agita un’intera mandria di capre dal mantello lucido e setoso, marrone o corvino. Yori è fuori dal recinto. Gioca tirando piccoli calcetti ai sassi, ignaro di quello che accadrà a breve.

I due uomini, muniti di un grosso bastone ricurvo, entrano quattro volte nel quadrato di terra e polvere dove si dimenano circa 50 grosse capre. Catturano prima una e poi un’altra capra, avvolgendo con velocità sbalorditiva il lato curvo e terminale del bastone intorno al collo dell’animale prescelto, designato nel mucchio in base a misteriosi canoni che io non posso conoscere. La capra così braccata è bloccata nel suo tentativo di attaccare con le sue lunghe e potenti corna. Ormai privata di qualsiasi possibilità di difesa, resta per alcuni interminabili attimi immobile e inerme per poi scalciare con una violenza sconcertante. Il secondo uomo cattura la seconda capra con la stessa modalità e poi, evitando le zampate e le cornate dei due animali impauriti, con l’aiuto dell’altro uomo, legano insieme i due animali terrorizzati, unendo i loro colli con robuste funi annodate strettamente.
I belati sono raggelanti. Altissimi e acuti. Gli animali si agitano, si scuotono, scalciano, fanno balzi di almeno un metro e mezzo. Tutto per liberarsi da quella tenaglia che li avvolge e quella consapevolezza della loro imminente fine. Il cappio blocca insieme a due a due le quattro capre, cosicché se la prima si muove o scalcia danneggia e ferisce la seconda. Una ressa indescrivibile, una profanazione di quel paesaggio bucolico, così soavemente ammirato pochi attimi prima che si trasforma in un eccidio. O in un’idea di quello che è il normale proseguimento della cattura.
I quattro grossi animali vengono caricati sul pick-up e legati ulteriormente ad un palo di ferro sulla parte posteriore del furgone. Una capra tenta un ultimo disperato tentativo di fuga ma riesce solo straordinariamente a montare sul dorso del suo vicino di agonia, restando in bilico su di esso con le zampe all’aria e cadere rovinosamente subito dopo con il collo distorto per via delle corde che blocca ogni minimo movimento. Il belato di dolore che la capra caduta emette, è un grido raggelante.

Yori resta imperturbabile. Non guarda ma neppure fugge. Non è spaventato, né impressionato. La scena che si svolge sotto i suoi occhi sembra essere di una normalità sconcertante, fatta di gesti di quotidiana e semplice routine.
Mi chiedo che uomo diventerà. Quale sarà la sua storia, le sue idee, le sue passioni e le sue manie. Cosa penserà di Dio e delle donne. Come sarà forgiata la sua coscienza, che forza avrà la sua fede, se mai ne avrà una. Quali i suoi sogni, i doveri, le censure. Che confini avranno le sue convenzioni. Ora ha solo una libertà selvaggia che manca alle sue capre, private per sempre di ciò che lui possiede con noncurante inconsapevolezza. Ben lungi dal conferire ai fatti se non la loro importanza proporzionata al suo essere il figlio di un pastore, sarà pastore egli stesso. Conoscerà e opererà quella brutalità che assomiglierà sempre più ad una opacità indistinta tra il confine del bene e del male. Quale sarà la sua visione del mistero delle cose ultime e di quelle di ogni giorno? Quali i suoi interrogativi metafisici e le ambiguità della sua vita e del suo cuore? Al di là di ieratiche considerazioni, la morte e la vita sono per lui il regno dell’uguaglianza, il regno dove si spengono le differenze. Mostrandosi al contrario in una luce limpida e netta. Il padre esercita per lui quella crudeltà e quella ferocia che si rivela in realtà, asettica e funzionale. Inquietante nella sua banalità.

Guardo a lungo la scena agghiacciante davanti ai miei occhi. Ma ciò che mi colpisce come una frustata è l’oscurità del profondo in cui il bambino è immerso con un’agilità spirituale di chi è costretto entro gli argini di leggi arcaiche e abitudini austere. Abituato a sopravvivere con la natura spesso ostile, nutrito dalle sue energie vitali senza quella falsa purezza di carica pulsionale che intorbidisce e infonde mollezza in noi, banali borghesi dalle categorie precostituite e consolidate
I due uomini risalgono sul furgone. L’uomo, manifestando una dolcezza infinita, prende Yori per mano e lo fa salire sul sedile posteriore, con quella cura amorevole e timorosa che tanto stride con la ferocia di pochi attimi prima. Yori mi fa ciao con la manina e mi mostra il suo più bel sorriso di dentini mancanti o ingialliti. Il furgone emette una nuvola di polvere.
Gli oleandri tornano a piegarsi sotto il peso del loro fiori. A piangere il loro sangue sull’asfalto. E petali rosa scuro, sempre più scuro, come attraversati da vene di carminio, cadono nel vento.

 

Testo e foto di Incanto Errante

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