Rajasthan, l’ora dorata dell’India.
Reportage di viaggio di Paola Casulli pubblicato sulla rivista culturale Achab
Era l’ora dorata del Rajasthan di certi pomeriggi indiani. La Terra dei Re era avvolta da una luce accecante dove le ombre non erano che tremolanti macchie brune, spettri inquieti a tracciare i contorni dei corpi sul terreno arido. Camminavo da ore in cerca di una buona foto da scattare. Quella che ogni fotografo vorrebbe portare a casa la sera, dopo una giornata infernale trascorsa nelle strade polverose. I monsoni erano lontani ma l’aria, come un grembo opalescente, era già intrisa di umidità. I vestiti restavano attaccati alla pelle, sebbene di tanto in tanto provassi a respingerli dal mio corpo. Tutto era inutile. Ogni movimento, ancorché piccolo, produceva altro sudore e fatica. Risciò, Tuk Tuk, furgoncini, mucche e persone si riversavano per strada con un caos i cui effetti mi sono rimasti dentro a lungo, provocandomi uno stato di alienazione verso tutto ciò che fosse anche solo minimamente rumoroso o pronunciato ad alta voce.
Amavo l’India spirituale e silenziosa dei templi, la quiete dei villaggi rurali che vedevo scorrere lungo la strada, giorno per giorno, ma odiavo l’India affollata e frenetica delle mille botteghe di datteri e argenti. Dell’oppio e del legno di sandalo. L’India degli odori nauseabondi di spezie, misto a sterco e urina.
Non riuscivo a comprendere, per quanti sforzi facessi, le sue molteplici sfaccettature, le mille contraddizioni. Fin troppo numerose come le tante braccia di Parvati, la più feroce degli dei induisti, terrificante e benevola allo stesso tempo. In parte demoniaca sterminatrice, in parte divinità creatrice in questo continuo flusso di distruzione e creazione.
Quel pomeriggio ero scesa dagli alti bastioni del Mehrangarh, il grande forte che domina la città di Jodhpur, e girovagavo per la città vecchia dove costruzioni a forma cubitale di intenso colore blu facevano risplendere di una luce misteriosa il labirinto di strettissime stradine. Ero entrata in quel vicolo per caso, quasi senza accorgermene. Attratta da un bambino scalzo che tirava calci ad un pallone, una massa amorfa per metà sgonfia e sporca di fango. Correvo lungo la stradina tortuosa cercando di stargli dietro con la macchina fotografica che mi ballonzolava sul petto, quando, svoltando un angolo, mi sono imbattuta nella bellezza. All’improvviso il traffico, il suono dei clacson che suonavano senza sosta e l’onda di folla, tutto era sparito per ospitare un silenzio rarefatto e strano. Dicono che Jodhpur sia la città dei bramini e che, per questo, ispiri la suggestione di un mondo mistico e l’immagine di asceti, con le lunghe barbe, a immergersi nelle acque di qualche lago sacro. Ma io la bellezza del divino l’ho incontrata lì, sul volto di una giovane donna.
In quel vicolo un’intera famiglia, di sole donne e bambine, era radunata sull’uscio di una casa indaco. Mi ero fermata di scatto e sono rimasta così, come dentro una sfera temporale sospesa, a cercare nella testa quella finalità nascosta che hanno le cose intangibili. Dimenticato il bambino e il suo buffo pallone, che nel frattempo si era dileguato come per incanto, guardavo quelle donne che, dalla più anziana alla più giovane, non erano intente a parlare o occupate in qualsiasi altra attività che io potessi aver interrotto. Semplicemente erano lì, avvolte dai loro sari verde smeraldo, giallo canarino, rosso fuoco. Chi in piedi, chi seduta sui gradini dell’uscio, quello sciame di farfalle colorate stava guardando me.
Un sorriso divertito, misto a curiosità, era spuntato sul volto della più giovane. Il che mi ero parso come un invito ad avvicinarmi. Avevo fatto cenno alla mia macchina fotografica come a spiegare che da lì a poco avrei potuto scattare loro delle foto. Ma quelle donne gentili e piene di una grazia infinita mi avevano risposto solo con un leggerissimo cenno del capo. I veli trapuntati di oro dei loro sari, scivolando indietro dalla loro fronte, avevano emanato un ….ffff.., come di lieve folata di vento, di brezza alla menta e cannella, scoprendo a tratti, chiome lucentissime e nere. Io scattavo, avvicinandomi sempre di più, cercando l’inquadratura perfetta quando ad un tratto nel mio obiettivo si era materializzato uno guardo che non dimenticherò mai. La donna aveva occhi grandi e lenti, come chi guarda le cose da distanze siderali. L’occhio destro era di un caldo color nocciola, come la quasi totalità delle donne indiane, ma l’altro era da trattenere il fiato. Di un azzurro vivido, come quello di certi cieli estivi dopo il temporale, era limpido, lucente e intenso. Ero rimasta interdetta. Non avevo più scattato alcuna foto a quella donna, restando con quella unica fotografia di lei, un po’ sbilenca e quasi fuori fuoco, custodita poi gelosamente tra le centinaia altre foto di viaggio. Conoscevo l’eterocromia, la caratteristica somatica delle iridi di avere colore differente, ma lì vi era di più di un languido battito di ciglia a rivelare quella particolare condizione. Lì erano racchiuse tutte le differenze e le contraddizioni di un Paese che stavo cercando faticosamente di comprendere. In un susseguirsi rapidissimo di immagini avevo visto scorrere, negli occhi della donna della città blu, le simmetrie perfette del Taj Mahal, i bastioni di pietra turriti di Jaisalmer, la fortezza nel deserto. I giardini di Delhi e i palazzi di Jaipur. In quelle iridi prendevano forma minareti, scalinate, templi, palazzi e fortezze insieme a una profonda tristezza. Una incolmabile distanza tra l’oggi e un passato di gloria e di sfarzo. Ero lì, in quel vicolo che odorava di incenso, rose e fogna, perché mi si fosse svelato, in modo misterioso, come un intero popolo, tanto numeroso e in costante crescita, potesse vivere in bilico tra due mondi. Il Rajasthan è così immerso in tradizioni antichissime da essere sì, uno degli stati indiani in cui il processo di modernizzazione è stato più lento ma, come nel resto dell’India, il ritmo del cambiamento è in continua accelerazione. Con una popolazione che è quasi raddoppiata rispetto al 1950, tutto ancora incarna alla perfezione lo spirito romantico e fiero che pervadeva miti e leggende rajput, ma l’incontro tra l’artificiale e il naturale, dell’ordine e del disordine, del fatto in serie in moderne fabbriche e del fatto a mano da abili artigiani, sta penetrando profondamente la sensibilità e la cultura orientale. Le tante religioni i cui riti si celebrano nei numerosi templi induisti e giainisti, moschee islamiche e chiese cristiane convivono ancora pacificamente ma i profondi significati spirituali di ciascuna di esse sembrano corrompersi tra continuo e alterno succedersi di aspirazioni verso l’Assoluto e rifiuto dello stesso Assoluto nelle generazioni più giovani, desiderose di vivere valori occidentali. Il Rajasthan, popolo di sultani e maharaja, ormai non regge più l’urto di una mondo che va rapidamente modernizzandosi e impoverendosi spiritualmente, in una irreversibilità senza scampo.
Il bambino con il pallone era ricomparso all’improvviso, destandomi bruscamente da quel senso di torpore. Chiedevo il nome alla ragazza dalle iridi diverse ma le altre donne intorno a lei mi spiegavano che la ragazza era muta. Poi, zie, sorelle, madri, chiunque fossero quelle donne, si erano alzate lentamente e le si erano fatte appresso. Mi era sembrato un modo di farle scudo contro la minaccia della mia curiosità considerata ora invadente, ma non avevo capito nulla. Le donne non stavano proteggendo lei, stavano proteggevano loro stesse! Stavano raccogliendo un’energia nuova dalla ragazza silenziosa e schiva. Quasi un rito di passaggio, un inesplicabile tempo mitico si stava consolidando davanti ai miei occhi. A dispetto di un’emarginazione facile nella nostra società, lì vi era una sorta di venerazione. Quella donna dagli occhi diversi e senza parola, godeva di una reputazione eccezionale. Era l’incarnazione allegorica di autorevolezza e protezione! Era per tutte le altre un riflesso luminoso su un intonaco scrostato. Era, per me, l’India luminosa e vitale resa afona da un progresso folle e senza coordinate che potessero dare senso e ordine a quei mutamenti. Quello sguardo magnetico, in cui era racchiuso tutto il significato recondito del Paese in cui stavo viaggiando, mi ha resa, da turista impaurita dal diverso, una viaggiatrice consapevole.
Ero rientrata in albergo con uno sguardo nuovo. Nella stanza un ventilatore a velocità rallentata emetteva un sibilo di insetto morente mentre, all’esterno, donne con le scope gettavano l’acqua, con cui avevano pulito gli usci, nei canali di scolo. Mucche passeggiavano indisturbate cacando enormi stronzi che cadevano sul terreno alzando una nuvoletta di polvere e portando alle narici l’odore ripugnante dei loro escrementi. Ero scesa, poi, nella hall per bere qualcosa di fresco quando una gigantesca mucca bianca, dal manto immacolato e scheletrico, aveva spinto con il muso la grossa porta a vetri di quella haveli trasformata in hotel ed era avanzata maestosa fino al bancone della reception. La figlia minore del proprietario, una ragazzina di 10 o forse 11 anni, che era intenta a inviare messaggi dal suo iPhone, era schizzata dietro una porticina laterale per ricomparire subito dopo con una ciotola di latte. Dare da bere al grosso animale e sospingerlo mugolando e agitando un lungo bastone verso l’uscita, era la cosa più naturale che potesse fare. La mucca era indietreggiata obbediente e poi, di nuovo in strada, si era allontanata indisturbata nel buio della sera. La ragazzina era tornata al suo cellulare e al suo misterioso interlocutore.
Scene come questa ormai non mi stupivano più. Avevo capito l’India. Mi era stata svelata dagli occhi blu-marroni di quella donna muta. Era il Rajasthan, la Terra dei Re. Quella porzione pur minuscola rispetto a tutto l’enorme territorio, dove convivono promesse di un futuro incerto e vestigia di un passato glorioso, è terra di uomini e gazzelle. Donne bellissime e antilopi. Tigri, macachi che rubano il cibo ai passanti, e le bellissime damigelle di Numidia. Queste gru di circa 75 cm di altezza, dalla livrea grigio-marrone e il collo dalle piume nere, portano notizie dei loro uomini alle donne marwari. Potete vederle volteggiare con grazia all’alba o nell’ora dorata del Rajasthan di certi pomeriggi indiani…
Testo e fotografie di Incanto Errante
ACHAB Scritture Solide in Transito
Rivista letteraria semestrale cartacea
DIRETTORE
Nando Vitali
EDITORE Ad est dell’Equatore
REDAZIONE
Athos Zontini (narrazioni)
Gianluca Vitiello (inchiesta)
Claudio Falco e Fabio Buonocore (graphic novel)
Maria Rosaria Vado (direttore artistico)
Ciao Paola,
non ci conosciamo, ti ho appena letto su Reporter di viaggio e, una volta approdata sul tuo blog, sono corsa a vedere di che luoghi avevi scritto. Portogallo, India… tutte terre che amo e che hanno cambiato il mio essere per portarmi a essere quella che sono. I miei complimenti per questo reportage veramente interessante, ben scritto e corredato di foto che parlano anch’esse. Un saluto! Serena