Allo sportello per richiedere l’Oyster, l’uomo al customer service, è un uomo di colore. Si chiama Jon. C’è scritto sul cartellino che ha sul taschino della giacca. Non chiedetemi perché, ma l’idea che avevo di Londra, città cosmopolita e d’integrazione perfetta, svanisce di fronte a Jon. Scritto così, senza h. L’h delle grandi aspirazioni dei personaggi da romanzo. Quelli a cui è data una possibilità. Un destino migliore se solo volessero. L’h, consonante che, anche solo per pronunciarla ti dà un tempo in più; non una sottrazione ma una nota, un diesis che trasforma la melodia. La rende non perfetta forse, ma consona al brano. La integra di diritto nello spartito della vita. Invece Jon, il “mio” Jon è un uomo buono. Rassegnato. Dolcissimo. Forse è Jonathan. Diminutivo che sa di cattolicesimo. Di difesa dal razzismo. Che riporta alla mente i campi di cotone, le persecuzioni. Il Ku Klux Klan, quando era proibito anche sederti in un bar per bianchi e prenderti una bibita fresca. D’accordo sto andando oltre con la mia fantasia. Ma lui è lì. E alza di rado lo sguardo. Jon ha un’aria placida e lunghe dita curate. Con le unghie un po’ lunghe per un uomo, trasparenti e leggermente rigate, che spiccano sulla sua pelle nera, picchietta nervosamente sul tavolo di plastica. Poi scrive di corsa pochi appunti. Due carte per la metropolitana… una da fare nuova… una da caricare… dunque.. si… 5 sterline… E continua così, a scrivere velocemente su un piccolo foglio bianco, strappato da un blocco a forma di cubo. Prende nota con minuzia. Riporta il suo sguardo sul monitor del computer. Mentre esegue le operazioni di routine, riprende a battere più volte con l’indice il foglietto bianco accanto a lui. Come a non voler assolutamente dimenticare quelle pur minime informazioni richieste e ottenute da quei due viaggiatori un po’ stanchi. Incuriositi da lui. Cosa avranno da guardare, penserà Jon. Ma non tradisce alcuna stizza o irritazione. Continua a picchiettare con l’unghia sul foglietto. Ancora e ancora. Poi si ferma. Scrive sul pc, invia i dati e attende conferma. Poi di nuovo. A volte quell’indice lo agita nell’aria, accanto alla fronte. Prima di calarlo nuovamente sul foglietto. A volte stende appena il dito e batte il piano con il polpastrello, il più delle volte, invece, lo curva di scatto, come una serratura incastrata e l’unghia torna a  produrre un suono bizzarro. Mi resterà dentro quel suono. Come una goccia che cade su un piano liscio e resta lì. Non si espande e non si asciuga. Resta rotonda e trasparente, in pieno vigore liquido. Jon alla fine ci guarda, ammicca, forse sorride anche, leggermente, e ci consegna le due tessere per la metropolitana. Ecco Londra per me sarà così. Un Jon senza h, timido e con quel piccolo tic in cui è racchiuso il senso del suo nome. Il senso di tutte le piccole cose. Ciao Jon.

Testo e fotografia di Incanto Errante

 

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