Una fionda si fa con legno di pino. Andrebbero bene anche altri legni ma il pino é un legno particolarmente resistente, che poi per spezzarlo ci vuole la mano di Dio. Spiega così, Samuele. Un bambino siciliano di 12 anni. Lo spiega al suo amichetto di giochi, in un dialetto antico e rotondo come una piccola onda di risacca sulla spiagge a dolce pendio.
Inizia così il documentario di Gianfranco Rosi, Fuocoammare. Con due bambini intenti a costruirsi una fionda e cercare uccellini da abbattere. Un istinto primordiale che prevale sull’innocenza e sulla ragione.
Inizia così. Con un gesto di crudeltà reiterata fino alla scena finale dove Samuele, forse rientrato in possesso della sua parte di tenerezza e umanità, instaura quello che sembra un dialogo, un canto notturno con un uccellino appollaiato su un albero. Invece di pensare di ucciderlo.
La sua e altre storie si dipanano, tutte, su un’isola siciliana. Che nulla ha dell’antico fasto greco, No. Perché il luogo del film é un non luogo. Un’isola nell’isola. Lampedusa. Un Horst, un pilastro tettonico, una porzione di crosta terrestre distante 113 km dalle coste tunisine, 250 km da quelle siciliane. Terra d’Africa, dunque. Estirpata dal silicio, umanizzata da uno spirito preumano di storie lontanissime. Uno scoglio o poco più dove il dolore ha scavato nicchie nella roccia e il mare blu, quel mare nostrum del passato fatto di epica e viaggi di grandi scoperte, è solo un cimitero di uomini, donne e bambini in fuga.
Una fuga dall’inconciliabile. Una fuga pianificata guardando ad un cielo stellato e all’idea di una libertà nuovamente garantita. Anche a costo della vita. E la vita la perdono, questi uomini, donne e bambini. Protesi verso l’ignoto, alla ricerca di nuovi luoghi non solo geografici ma spazi collettivi di sogni, come atomi privi di pregiudizi, superstizioni, guerre, fame, stupri.
Si, perché la vicenda di tutto il film é quella salata dei migranti. Insieme a loro, c’è il tempo della natura, circolare, sempre uguale a se stesso. Un linea che avanza e non affranca nessuno dei protagonisti dal suo destino.
Non il dj dell’isola, Pippo, che vive in un mondo fatto di suoni e musica. La zia Maria che rifà il letto stendendo ogni piega del pizzo con cura maniacale. Non lo zio di Samuele, pescatore, con la barca piena di fotografie accartocciate dalla salsedine, né il sub solitario. O la nonna di Samuele. Nessuno di loro ha rapporti con l’altra faccia dell’isola. Quella dove sbarcano i migranti. A centinaia. Neanche il loro destino sembra essere diverso da quello cantato nel Rap – gospel da uno di loro. Una voce calda e roca che dice di come hanno attraversato deserti. Visto il buio di galere putride. Subito Violenze. E che quando riescono a raggiungere Lampedusa, ci arrivano stremati, disidratati e interamente ricoperti di piaghe. Ustionati dai gas di scarico dei motori.
Pietro Bartolo, unico medico di Lampedusa e unico protagonista a interagire con i migranti racconta, in una manciata di minuti che valgono tutto il film, di come lui non si è mai abituato alla morte. Alla gratuità del dolore. Nonostante i suoi occhi vedano ogni giorno, senza censura, ogni orrore. Come l’immagine che torna nei suoi incubi di sempre: madri che partoriscono in mare e muoiono così, con le loro creature ancora attaccate al cordone ombelicale. E lui deve metterli nei sacchi. Li mette uniti. Insieme, madre e figlio. In un abbraccio che è concetto di morte svuotato del suo stesso senso perchè privo del significato di vita.
É onesto Rosi. E trasparente. Niente sotterfugi ideologici. Niente interpretazioni teologiche religiose. Nulla. Solo evidenze. Solo la realtà. Nuda e cruda.
Un tempo lento la sua cinepresa che non si contrappone a quello infinitesimale della morte che ghermisce. Somali. Eritrei. Nigeriani. Sudanesi. Siriani. Quelli che si salvano e quelli che muoiono. Li vedi tutti lì. Raggomitolati nei sacchi per cadaveri davanti ai militari attoniti e impotenti, quelli che muoiono durante il viaggio della speranza. Quelli che si salvano, invece, improvvisano partite di calcio tra squadre dei tanti paesi di questo Mediterraneo fatto tomba ma anche salvezza. In una polifonia di destini e di piccole vite. Ed esultano quelli che vincono. Si portano sulle spalle l’eroe del goal finale, con i loro sorrisi bianchissimi e perfetti. Un piccolo spazio, nelle notti del dolore, dove la felicità, questa “forza possente e imprevedibile”, come la chiama Platone, é fatta di occasioni sempre meno numerose di quanto vorremmo. E va acchiappata al volo.
E cantano anche. Quei disperati. Che Fuocoammare é pure una canzone. Ma non la loro. É una vecchia canzone popolare siciliana di cui non si ha più traccia del testo. Forse, come dice la nonna a Samuele in un pomeriggio di tuoni e pioggia, fuocoammare era il modo di dire dei vecchi. Quando durante la guerra del 43, dalla costa, si vedevano le navi bombardate e il fuoco illuminava il cielo e il mare.
Guerra. E ancora guerra. Nel passato come nel presente. Le guerre non cessano mai. Non ti resta il motivetto della canzone, in testa. Quella dalle note jazzate accennata del dj Pippo e poi trasmessa dalla sua radio. No.
In testa, all’uscita dal cinema, ti resta un’altra musica. Se cosi si può dire. La frase ripetuta all’infinito dai militari sulla nave da guerra uscita in mare a pattugliare la costa in cerca dei barconi. In cerca di uomini da salvare. Your position. Your position. Chiede una voce, all’infinito. É la scena finale, dei cadaveri ammonticchiati sul fondo della stiva, a dirti che non c’è nessuna posizione. Nessuna coordinata. Se non quella della morte.
Il film termina come inizia. Con inquadrature sul piccolo Samuele. Samuele che non ama il mare, lui che vive sul mare, e che si esercita a stare in equilibrio senza vomitare sulla banchina del porticciolo. Un consiglio dello zio. Per familiarizzare con il mare che il mare, però, non si addomestica. Samuele lo sa. Lo ritroviamo solo in quel porticciolo. Con le sue ansie di preadolescente. Solo con l’isola. Solo come tutti noi. Ignari fino in fondo delle tragedie che si consumano sotto i nostri occhi. Un occhio pigro come quello diagnosticato allo stesso Samuele da Bartolo. Un occhio che forse può riacquistare diottrie. Che forse può tornare a vedere. Se allenato a non avere più paura del diverso da noi. Del lontano. Una paura che, se sconfitta, può contrastare l’esito della domanda ripetuta come un’eco sinistra nella notte: your position your position. A cui spesso nessuno risponde. Ché i morti tacciono. In fondo al mare.
Incanto Errante